Ai Kampf è riuscito il colpo in Borsa. Sono diventati ricchi, e aspirano adesso, a buon diritto, ad entrare nell’alta società. L’ingresso non è tuttavia solo una questione di soldi, ma di immagine e rispettabilità. Così Rosine Kampf, ex dattilografa, ora gran signora, organizza un Ballo. E recapita inviti studiati. Vuole a tutti i costi essere accettata nel patinato mondo parigino ma soprattutto intende riprendersi la giovinezza, insieme a tutto quello che la vita le ha negato da ragazza. Antoinette, la figlia quattordicenne sogna intanto il suo debutto in società ma è, forse, troppo bella e troppo giovane per non suscitare l’invidia della madre che intende escluderla dalla festa …

Non è un racconto: è una bomba ad orologeria. Scandito in capitoli, sei, gioca a fare il romanzo ma si esaurisce in fretta, come svaniscono prima del tempo le aspettative dei protagonisti all’interno della storia. Perfetto accordo tra stile e contenuto. I protagonisti, tre, non sono affreschi anche se il ritratto a penna si accorderebbe di più allo stile impero; sono statue, e ognuno porta all’interno della trama le sue granitiche convinzioni. Meglio così, tra un divano d’epoca, un salotto buono e i tendaggi spiccano, in primo piano, tre modi d’essere.

Ci sembra d’essere piombati nel bel mezzo di “Essere e il Nulla” di Sartre, parte terza: l’esistenza d’altri, ovvero, il problema. L’inferno sono gli altri, e non c’è inferno peggiore di un salotto “dal mobilio carico di ottoni” in cui si consumano guerre silenziose. 

Il personaggio maschile è poco più di un’ombra: la Nemirovsky lo coglie in obliquo, nei gesti nervosi, gli attribuisce il più delle volte un’aria assente, la moglie lo istruisce a dovere per il giorno del Ballo: “Parla il meno possibile!”. Eppure è lui ad aver dato l’incipit al racconto stesso, arricchendosi d’un tratto. Ma non per suo merito, sia ben chiaro. La scena è piuttosto una contesa tra donne, rivali. Madre e figlia sembrano l’una il prolungamento dell’altra, forse sono la stessa persona: una giovanissima, privata del suo debutto in società, e un’adulta che se lo organizza da sé, in ritardo, ma alla perfezione. Eppure hanno due nomi, strano. La piccola Kampf è Antoinette, nome che evoca quell’icona di vanità e capriccio che fu l’ultima regina francese prima della Rivoluzione. Il nome, certo, viene dalla genitrice e sono sue le qualità che rispecchia. La grande Kampf osserva la figlia, senza benevolenza, tra un rimprovero e l’altro: è una ragazzina pericolosa. Sente di essere in fondo lei, e ancora, da decenni: quella quattordicenne a cui è stato negato un debutto sociale. Peccato che lo specchio giochi a volte il brutto scherzo di restituirle i suoi anni, quelli veri! Così, la triste e nervosa Rosine è ora finalmente ricca, e cerca di porre rimedio ai no che la vita le ha inflitto, incurante di impartirne altrettanti alla figlia, e sorda oppone a quell’orologio implacabile e metaforico che l’autrice evoca in continuazione un suo proprio tempo: quello che basta a organizzare un Ballo. È così. Al lettore meno attento quell’incessante rimando ai minuti, alle azioni e ai momenti parla forse proprio di questo impeccabile macchinario ingegneristico che lei ha creato. Ogni capitolo suggerisce un orario, un luogo nella linea del tempo … alle nove in punto, dice il secondo, e poi, nel cuore della notte, dice il terzo, e il giorno prima, ricorda il quarto. Tempo, tempo, non è altro che una collana di perle, preziosi istanti in fila, uno dietro l’altro. Si tratta però a ben vedere del tempo di tutti. Un orologio che è qualsiasi orologio: un sordo e impietoso avanzare delle cose che non ammette replica.   

“Il ballo” di Irene Nemirovsky.