Le fiabe ascoltate da bambine o raccolte in un simbolico libro non scritto, patrimonio dell’umanità, ci guidano in questo testo- specchio, verso la scoperta di un terreno psichico ancora intatto e il più delle volte dimenticato, al quale dovremmo fare ogni tanto ritorno per recuperare un’energia vitale in grado di farci rialzare dalle cadute e ritrovare noi stesse.

È un libro che parla alle donne. Le donne lo dovrebbero leggere nei momenti di crisi o transizione, mentre agli uomini farebbe bene per capire un po’ meglio le tempeste emotive, un insieme non lineare di fragilità e potere, che attraversano l’animo delle loro compagne, figlie, amiche, madri. La sua eco ricorda un’altra voce: quella ululata nelle foreste, la parte selvaggia che ognuna di noi accantona, dimentica o addomestica ma che potrebbe salvarci dai tiri bassi della vita, riportarci a casa. La casa di cui parla Clarissa Pinkola Estés è per ciascuna diversa ma in fondo per tutti uguale: quel luogo non fisico in cui siamo ad agio, vigorose e vitali, pienamente noi stesse, fertili d’anima e realizzate. Ritornare ogni tanto a casa, nel luogo prescelto della propria solitudine o nel rituale rassicurante di una passione, immersi nell’elemento che ci vivifica o nella situazione naturale che sentiamo nostra è istinto e insieme necessità logica da perseguire per rigenerarci dalla dura faccenda che è il mondo, con i suoi diktat, limiti soffocanti, con le sue crudeltà, con i suoi stereotipi. Solo lì, o grazie a quella sosta rinvigorente la “Donna Selvaggia” può respirare ed essere, e noi con lei evolvere. L’anima crea: ha mille braccia e gambe, se non le diamo spazio resta in paralisi come un rimpianto, e invece può determinare. Tale generazione si avvia dal miracolo di un dialogo profondo con noi stesse, che inizialmente percepiamo estraneo, come una lingua straniera che solo dopo riusciremo a comprendere, eppure solo così la Donna Selvaggia può “zampillare” nel nostro essere e produrre cambiamento, se è vero che “Colui che non sa ululare non troverà la sua muta”.  I comportamenti della lupa diventano qui una metafora dell’istinto salvifico di una donna, della sua precognizione psichica, del suo talento, della sua appassionata adesione alla vita. Le storie narrate, tramandate oralmente e poi scritte, diventano pasto caldo per l’anima affamata e ancora, quella segnaletica in grado di vincere il senso di smarrimento tipico del nostro tempo e accompagnarci per mano verso la nostra natura indomita. Solo questo percorso a ritroso può infatti guarire ogni male, dall’infelicità alla dipendenza, alla patologia che si manifesta con mille sintomi per ricordare a noi stesse chi siamo nel modo in cui non possiamo essere. Barbablù, Vassilissa, la Piccola Fiammiferaia e gli altri universali archetipi della narrazione diventano un intreccio di evocazioni che inducono l’anima incantata a superare certi limiti culturali e ripensare noi stesse in una nuova prospettiva, secondo un percorso del cuore che mira al recupero di una dimensione troppo spesso sommersa, quella dell’autenticità e della creatività libera dalle paure.

Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés.

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