Il saluto al Maestro Battiato sembra chiudere un’epoca. Inquieta, come la sua ricerca, che è stata febbrile, sperimentale, dinamica, in eterna trasformazione, specchio esatto della vita, ma anche in grado di fermarsi, a tratti e, pacificandosi con l’enigma di essere uomini, capace di cogliere un fiore, e donarlo ai contemporanei. Di questi beati momenti di felice restituzione musicale, restano piccoli capolavori che attestano la genialità di un uomo che ha messo d’accordo critica e pubblico, come solo i geni sanno fare. Perché chiamarlo genio? Perché piaceva a tutti. Non esiste una sola persona che io conosca che non abbia amato sinceramente e visceralmente almeno due, tre delle sue canzoni.  E perché per quanto ne abbiano criticato, a volte bonariamente, altre meno, la criptica nota del suo stile, era capace di arrivare diretto alle orecchie e al cuore.  È forse questa la caratteristica del genio. Piace e basta, piace a tutti, magari secondo livelli di accoglienza e comprensione diversi, ma quando un talento è visibile non divide ma unisce, ed è riconosciuto universalmente da chi ha studiato musica, filosofia, scienza e da chi, per scelta o sorte, non ha potuto farlo. Altro carattere del genio: la coesistenza senza contraddizione di grandezza e umiltà. Battiato ha raggiunto vette artistiche, ha volato alto e mai in stormo, e senza abbandonare troppo il nido: cosmopolita e insieme legato alle sue radici, uomo del mondo dai mille contatti e insieme eremita nell’isolamento splendido della sua villa alle pendici dell’Etna, luogo di raccoglimento e meditazione. Se la ricerca spirituale non avesse sempre accompagnato la sua esistenza forse l’avremmo definito un artista, non un genio: perché è quella, a mio avviso, che ha dato spessore alla sua carriera rendendola una vera vocazione, una strada verso Dio. Una missione d’amore. La musica non è stata un fine, come è invece per molti cantanti, gruppi e artisti di belle speranze che affollano i palcoscenici odierni, ma uno splendido strumento di evoluzione, duttile, del resto, perché si è trasformata lei stessa, con lui, nella più coerente aderenza dell’Essere, ma insieme orizzonte eterno, perché l’ha sempre accompagnato, mostrandogli la luce nel mondo. Non a tutti è dato di avere un talento. È stato fortunato. Ma non tutti riescono, i fortunati che lo hanno ricevuto in sorte, a gestirlo nel modo giusto, coltivarlo e accrescerlo senza restarne schiavi, farne non un porto sicuro, un rifugio, ma una strada incerta verso sbocchi imprevisti e sempre nuovi. Una strada in salita. Meglio, in ascesa. E in grado, sollevandosi, di trainare verso l’alto il suo autore.

 Nella sua irriducibile singolarità somigliava moltissimo a un altro grande del nostro tempo, un uomo che qualche anno prima della sua morte ebbi l’onore di intervistare, un uomo con cui tenacemente e proficuamente aveva avviato una collaborazione artistica: il maestro Sgalambro. Filosofo, intellettuale, autore di molti testi di Franco Battiato, Manlio Sgalambro era lucido osservatore dei nostri giorni e aveva impresso, a mio avviso, una spinta qualitativa alla ricerca musicale, filosofica e artistica di Battiato. Mi confidò, quel pomeriggio nella sua elegante residenza al centro di Catania, che dopo tanti anni di collaborazione e amicizia si davano ancora del Lei, lui e Battiato, come i coniugi francesi, mi disse. E questo nulla toglie, mi fece intendere con la similitudine, all’affetto e alla stima reciproca, anzi aggiunge qualcosa, direi io, nell’epoca della maleducazione, del contatto facile e dell’arroganza, in termini di delicatezza, raffinatezza e rispetto nei rapporti umani. Quanto avremmo da imparare, noi burattini, e non custodi della nostra epoca, da questi due giganti della cultura! 

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