Un chimico curioso dell’animo umano attraversa i confini dell’inferno, nel campo di sterminio più famoso al mondo. Tra sommersi e salvati riuscirà a ritornare dal Lager, sentendo come primo impegno morale con la vita il dovere di affidare alla carta la propria testimonianza. La Storia è giudicata, attraverso la narrazione, dallo sguardo di un uomo che ne ha subito i più devastanti oltraggi.

La cattura del 1943 a ventiquattro anni è l’incipit del romanzo, quella premessa sillogistica da cui l’intera trama del libro sembra derivare di necessità. Eppure alla lettura di una tale testimonianza, ancora una volta, la nostra ferrea logica e la nostra moralità, a qualunque livello di forza essa si trovi, fanno a pugni con l’incomprensibile Assurdo che permea l’intera vicenda; la vicenda di milioni di ebrei uccisi ad Auschwitz che poi si fa Storia, e dopo Letteratura e infine monito per le generazioni future, etichetta generica in cui però ci ritroviamo tutti, anche noi lettori dell’opera di Primo Levi, e sempre di fronte ad essa in silenzio, quel dovuto silenzio di rispetto e curiosità, giusto terreno per accogliere la sua voce. Dall’Arbeit Macht Frei svettante in ingresso alla dura consapevolezza “del Camino” come sola via d’uscita, l’autore protagonista si riaccompagna, nel ricordo, e ci accompagna, attraverso le logiche deviate del Lager, i bisogni primordiali incontenibili, mangiare, bere, coprirsi, restare in vita, i sogni ricorrenti dei prigionieri,  i nuovi concetti di giusto e ingiusto, il durissimo impegno alla sopravvivenza quotidiana e la speranza quasi folle di una “remota possibilità di bene” ancora integra fuori da quella forma degradata d’esistenza. Colpisce lo stile, non declassato dai contenuti, non mortificato e tenuto all’angolo come la meno importante delle questioni, come spesso accade quando la narrazione è urgente. La cornice narrativa, al contrario, qui è forte, ragionata: la storia scivola con leggerezza, come se una prima epurazione dai sentimenti negativi fosse già avvenuta, come se non si assegnasse alla carta il compito peggiore, quello terapeutico di stemperare le emozioni. L’oggetto, la memoria non ha caratteri di aggressività, ma si lascia plasmare, addomesticare da uno stile consapevole, capace di imporre la propria armonia: vince così la razionalità umana, quel modo d’essere umani che nessun Lager, per quanto lo voglia, sarà in grado di spegnere. E in effetti questo libro deve essere stato già tutto lì, in testa al suo autore, ad Auschwitz, come il dover essere in grado di tenerlo in vita. È una testimonianza che sconvolge, perché reca in sé una voce più che umana, di un individuo che non si è arreso alla logica dell’annientamento messa in atto dal regime nazista, ma che nel constatare la difficoltà di poter definire ancora uomini gli individui piegati dalla violenza, umiliati e offesi nella dignità, rivendica, attraverso stile, spirito e impostazione del racconto l’incontaminata bellezza del tenere alta quella scintilla, spesso indifesa, della nostra umanità. 

Se questo è un uomo, Primo Levi.

Foto di Irene Giuffrida

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