La mancanza di libertà fisica, mentale, psicologica porta all’eclissi della creatività, si potrebbe pensare. Considerazione non del tutto vera. I percorsi della vita più ardui possono essere un motore propulsore che accende quel quid immaginativo unico e inimitabile nell’artista, che lo renderà immortale. Vogliamo fare qualche esempio. Nel Seicento Napoli fu funestata dalla peste. In questo momento storico possiamo capire bene quali pensieri attraversassero le menti dei nostri avi, sospesi ieri come oggi, in una dimensione ambivalente fatta da un presente che affligge l’animo e la proiezione verso un futuro libero. Un ceroplasta siracusano, Gaetano Zumbo o Zummo (1656-1701) rappresenta i sentimenti di quel momento in un piccolo diorama conservato al museo della Specola di Firenze. “La peste” è una composizione di corpi di cera che affollano la scena in modo caotico. Il dramma in atto. La gente è morta o sta morendo mentre i monatti accatastano i corpi disordinatamente. Com’è democratica la morte! Sono giovani, vecchi e bambini dal colore della pelle inequivocabile: è il colore della morte.  Come da tradizione barocca questo è un memento mori che ci deve far riflettere sulla precarietà esistenziale e sulla fragilità umana. Uno spaccato di drammatica vita vera. Quei corpi nudi, senza identità sono un pretesto per l’artista per fermare il tempo e farne un racconto. Nelle sue cere ci mostra il dramma umano della mancanza. La più preziosa delle mancanze, quella della vita di uomini e donne ritratti e fermati in pose drammatiche per la memoria di chi sopravvivrà o verrà dopo di loro nei secoli. Per non dimenticare ciò che fu e potrebbe, ahimè, ritornare.

Gaetano Giulio Zumbo, “La peste” (Ceroplastica), diorama, Museo la Specola Firenze, 1690
Gaetano Giulio Zumbo, “La peste” (particolare), diorama, Museo la Specola Firenze, 1690

E di mancanza e solitudine ci parla la storia di Frida Kahlo donna messicana della prima metà del ventesimo secolo. Quanto dolore le ha dato il suo corpo. Prima la poliomelite e poi quel brutto incidente in tram! Quanta mancanza di libertà fisica avrà patito intrappolata in un corpo scomposto e ferito dai numerosi interventi. E quanta assenza d’amore ha spesso sentito a causa del suo “Panzon”, suo marito Diego Rivera, artista donnaiolo e narcisista che ha amato una vita intera. In quegli anni difficili, di sofferenza e d’immobilità fisica, però fiorisce una nuova Frida. Dalla donna realmente sofferente nasce l’artista libera, nella mente, da ogni limitazione fisica. Le due Frida che convivono sono nutrimento necessario per l’anima che genera arte d’ineguagliabile grandezza che diventa icona. L’artista rappresenta se stessa indipendente, forte e resiliente ma sempre tormentata. Agonia fisica e amore che non trova pace. La sublimazione è la cura che rappresenta nei suoi celebri autoritratti. Le “Due Frida” condividono i loro cuori, in “letto volante” ci racconta il dramma del suo aborto, mentre sullo sfondo una città rimane indifferente. Si racconta come una “Colonna Rotta”, in un celebre dipinto che rappresenta il suo martirio. Lei stessa dice: non ho mai dipinto sogni. Quello che ritraevo era la mia realtà.  Attraverso queste tele c’è il racconto di quanta mancanza d’amore, gioia e libertà fisica ha dovuto attraversare nella vita. Il suo è un linguaggio d’assenze, che lei ha saputo mirabilmente utilizzare per raccontarsi e raccontarci un dolore intimo, che non sarà mai mal di vivere ma un inno alla vita.

Frida Khalo, “Le due Frida”, 1939
Frida Khalo, “Ospedale Henry Ford”, 1932
Frida Khalo, “La colonna rotta”, 1944

Giorgio De Chirico è un nostalgico. Un’emozione caratterizzata da quel senso di tristezza e di rimpianto per la lontananza di persone o luoghi cari. È un pittore dei primi del Novecento e si accosta con le sue celebri “Piazze d’Italia” alla pittura metafisica.

Una solitudine nostalgica che parte da lontano, quella dell’artista, forse dall’infanzia e che rappresenterà da adulto nelle sue piazze. Deserte, silenziose, stranianti e irreali.

Giorgio De Chirico, “Piazza d’Italia con fontana”, 1968
Giorgio De Chirico, “Piazza d’Italia con torre rosa”, 1934

Davvero irreali? È inevitabile l’accostamento, emotivo e fisico, delle sue architetture agli scenari delle nostre piazze al tempo della pandemia. Quel vuoto di luoghi sospesi, la mancanza di gente che restituisce una dimensione agorafobica alle sue piazze come alle nostre. Tutto è immobile. Una dimensione che manterremmo lungamente nel ricordo anche quando torneremo alla nostra, non banale, normalità.