Il cibo non è solo cibo. È anche nutrimento: spirituale, culturale. E poi, molto altro. La consuetudine tutta umana di nutrirsi e insieme ritenere di star facendo anche molto altro vanta radici antiche e numerose testimonianze. Una di queste non è diretta, ma si avvale di molteplici studi e ricerche. Non è specificamente legata a ciò che ci riempie lo stomaco ma ha a che fare con ciò di cui l’uomo si ciba: miti, sogni, costumi, ambizioni, credenze e molto spesso tutte queste situazioni sono legate per superstizione, analogia, magia o poesia agli alimenti. Si tratta delle documentazioni storiche di James G. Frazer che nel suo libro “Il ramo d’oro” racconta l’infanzia dell’uomo e non può farlo ignorando l’aspetto materiale perché sempre storie e magie, anche quelle che lui narra, hanno relazione profonda con le più tangibili presenze del quotidiano. La linea sottile tra incantesimo e preghiera, magia e religione, credenza e scienza è tracciata, ma non resta netta alla mente del lettore ancora avviluppata nelle fascinazioni di gesta e prassi antiche. Nel fitto bosco romanzesco che il padre della moderna antropologia traccia, ci sono delineate possibilità di sentieri: quello che io prendo oggi per voi è il percorso del cibo, parte del rituale del vivere, simbolico modo d’introiettare materia e anima. E mi viene subito in mente il pane, perché lievita, e si trasforma da speranza in possibilità di esistenza. È la magia della sopravvivenza fatta cibo, un incantesimo che acquista metaforicità e chiave simbolica anche nelle tradizioni religiose. Frazer ricorda la convinzione antica del potere del pane di scacciare i demoni: ecco perché bisognava tenerlo sempre in casa. Oggi diremmo che queste presenze maligne, antagoniste del pane, cibo per eccellenza, altre non sono che lo spettro delle carestie, a lungo vissute dall’umanità, delle guerre e della povertà, poiché forse ha uno strano modo di esprimersi il mito, ma sempre dice il vero. In alcuni casi questo pane così vicino alla vita come significato era necessario ai defunti per arrivare nell’al di là: un altro tipo di moneta da tributare a “Caronte”. Se il cibo nutre, il pane è quintessenza di ogni cibo: la sua presenza esorcizza la morte, la fronteggia e vince.
Osiride era descritto dagli Egizi come il Dio del grano, poiché il suo ciclo di coltivazione è metafora della rigenerazione dell’esistenza. Persefone e Demetra, spiega Frazer nel suo inesauribile serbatoio di storie, rappresentano nel mondo greco lo stesso concetto. La discesa agli inferi di Persefone cela l’atto della semina. Il suo ritorno in terra simboleggia la primavera e il grano nuovo.
L’usanza tutta cristiana di spezzare il pane e accostarlo al corpo di Cristo ha un forte impatto emotivo ma non è un archetipo isolato. Anche gli Aztechi prima della conquista spagnola lo assumevano in maniera rituale, assimilandolo al corpo della divinità, che li avrebbe così resi più forti. Mangiare un animale o non farlo è sempre stata una questione simbolica. Farlo era assumere la forza o l’intelletto della preda, evitare di nutrirsi dell’animale dopo averlo sacrificato era visto come un’offerta gradita agli Dei. Quanto si introiettava, secondo molte tribù e civiltà, nel mangiare l’animale o negli atti rituali di cannibalismo, non era pura materia, come detto: ma principalmente l’anima, e poi la forza, il vigore, le qualità dell’avversario. Mangiare è sempre stato Essere, nella considerazione più istintiva, quando l’istinto era logica e lo spirito non poteva che essere, in ultima analisi, materia, o suo veicolo. Così torniamo al corpo di Cristo e al pane degli Aztechi, e anche questa consuetudine, divenuta sacra, nasconde tra le sue radici non viste un elemento di tribalità: quella convinzione sanguigna e illogica del selvaggio di acquisire le qualità fisiche e morali dell’uomo e dell’animale che mangiava, e di conseguenza la divinità stessa dell’essere divino assaporato, mediante una simbolica nutrizione rituale.


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