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Il canto del cigno dei nostri emisferi.

Non dobbiamo temere la morte, ammoniva Epicuro, filosofo greco antico, perché quando noi ci siamo lei non c’è, e quando lei c’è, noi non ci siamo. Ma ne siamo proprio sicuri? Da recenti studi di neuroscienza sembrerebbe emergere una nuova verità: la morte “ci troverà vivi”, perché il nostro cervello ama la vita più di noi. Tanto da sopravviverci. Mentre noi ci spegniamo, magari in una fredda stanza di ospedale, ed esaliamo l’ultimo respiro, lui che fa? Continua a lavorare. Per alcuni minuti. Questa la sorprendente scoperta della University of Michigan Medical School, gruppo di lavoro guidato dal neuroscienziato Jimo Borjigin che ha spiegato il modo esatto in cui il cervello muore. Dalla registrazione dell’attività cerebrale su alcuni soggetti in procinto di morire è stata riscontrata, dai trenta secondi precedenti ai due minuti successivi alla cessazione di ogni ventilazione terapeutica, una notevole scarica di onde gamma, le più veloci che si possano sperimentare, segno di un cervello estremamente lucido e attivo, dotato di coscienza e nel pieno delle sue funzioni. Ma cosa rivelano le onde gamma? Questa particolare tipologia di onde cerebrali è legata all’attività di risoluzione di problemi specifici, dunque testimonia una coscienza fortemente concentrata, è presente anche negli stati di forte spiritualità, di amore verso il prossimo e collegata a profondo appagamento interiore. La parte in cui si attiva questa anomala attività cerebrale sarebbe la giunzione temporoparietale, regione del cervello in cui i lobi temporale e parietale si incontrano, la stessa che durante il sonno consentirebbe di sperimentare i sogni lucidi, le illusioni percettive e le esperienze extracorporee. Qualcosa di analogo era stato verificato dallo stesso Borjigin nel 2013, quando insieme a un team di ricercatori aveva sottoposto un gruppo di topi ad arresto cardiaco per eutanasia, registrandone tramite elettrodi l’attività cerebrale, e si erano riscontrate, subito dopo che il cuore delle cavie aveva smesso di battere, scariche di onde gamma per oltre i trenta secondi successivi.

Questo studio va di certo interpretato. Per molti sarebbe la prova e il riscontro della buona fede di quanto narrato dai pazienti terminali in condizione di premorte, per altri la definitiva conferma che il nostro cervello sopravvive all’arresto cardiaco, almeno per un paio di minuti, regalando al soggetto quella tanto decantata raffica di immagini gelosamente custodita a doppia mandata nei propri meandri. Bisognerebbe ripensare forse il concetto di morte, trovarle un nuovo senso, e l’esatta collocazione nel fine vita. Di certo, gli scienziati assicurano, da questi studi emergerebbe il ruolo attivo del nostro cervello durante l’arresto cardiaco, e durante l’esperienza stessa della morte. La casistica esaminata è ancora ristretta, e lo studio ha preso il via da un motivo occasionale del tutto inaspettato: il decesso di un anziano durante una visita clinica con elettroencefalogramma. I risultati di questa ricerca, pubblicati nella prestigiosa rivista “Frontiers in Aging Neuroscience”, faranno ancora discutere per molto, e tuttavia non basteranno a sciogliere dal punto di vista scientifico, né filosofico, l’intricato mistero della morte. Di certo però testimoniano la possibilità del soggetto morente di sperimentare, in punto di morte, delle visioni emotivamente tranquillizzanti, rendendo anche l’azione di morte che abbiamo sempre culturalmente inteso come paralizzante, nullificante e passiva come un’attività costruttiva del soggetto, in grado di chiudere con lucidità e padronanza, “il cerchio dell’esistenza”.

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