Di quante parole abbiamo bisogno per parlare una lingua straniera? In realtà dipende dalla lingua in oggetto. Ad esempio per parlare il cinese, bisogna imparare almeno 5000 parole; questo perché il cinese è una lingua isolante, vale a dire formata solo da lessemi (unità di base del sistema lessicale) che si accostano senza la presenza di morfemi (unità di base del sistema grammaticale), che messi insieme devono dare vita ad infiniti concetti. In pratica è una lingua fatta solo di parole, da qui l’esigenza di imparare numerosissimi vocaboli per potere comunicare. Molte altre lingue sono invece formate da lessemi e morfemi, ovvero da lessico e strutture grammaticali (plurale/singolare, maschile/ femminile, ecc.) che si accostano, nel caso delle lingue agglutinanti (vedi il turco) o si flettono, cioè si fondono, nel caso di lingue flessive (vedi l’italiano) tramite suffissi, prefissi e via dicendo. La lingua inglese per quanto originariamente fosse una lingua flessiva di fatto nel tempo sta diventando una lingua isolante; ad esempio la coniugazione verbale è priva di desinenze per i diversi soggetti e quindi diventa indispensabile la specificazione del soggetto e la sua posizione, rigorosamente davanti al verbo, all’interno della frase. Ne deriva quindi che il lessico, il cosiddetto “vocabulary” sia indispensabile per parlare l’inglese e nei decenni passati diversi linguisti hanno posto l’enfasi proprio sull’importanza delle parole piuttosto che sulla grammatica. Negli anni 80/90 ad esempio, fu ideato l’approccio lessicale tra i cui principali promotori vi fu Michael Lewis (The Lexical Approach, 1993), che partiva dal concetto di “lessico grammaticalizzato”, capovolgendo quello di “grammatica lessicalizzata”, promuovendo la diffusione dei “chunks of language” (blocchi di parole) tramite i quali si sviluppa la lingua inglese. Ma cosa sono nel dettaglio questi “blocchi di parole”? Sono quelle frasi fatte, pronte, tipiche e confezionate tramite le quali si introduce e si conclude un discorso, si connettono parti dello stesso, si danno opinioni e via dicendo. I chunks includono anche frasi colloquiali ovvero modi di dire, verbi frasali e idiomi, che di solito riscuotono più interesse. Tra i modi dire citiamo quindi:   all the best!  (ti auguro il meglio), How are you/what’s up (come stai/ che succede?), See you soon! (a presto), Have a nice day ( buona giornata). Tra i verbi frasali citiamo invece  get on/ off the bus (Salire/scendere dall’autobus), hold on (attendere), find out (scoprire), mentre tra gli idiomi citiamo it’s raining cats and dogs (sta diluviando), break a leg (in bocca a lupo), he’s on the ball (è in gamba) .

I chunks inoltre risultano essere di grande aiuto nella lingua parlata per aumentare la fluency (la scorrevolezza del discorso): sono i cosiddetti “riempitivi” di quelle pause e silenzi che altrimenti ingolferebbero la conversazione. Su questi ultimi vorrei porre un accento in più, considerata l’importanza crescente della fluency nel modo di conversare odierno. Da indagini mirate è emerso infatti, quanto in un colloquio di lavoro ad esempio, sia dato un peso maggiore ad un inglese fluente anche se “sgrammaticato” (ovviamente errori che non impediscano il passaggio del messaggio), piuttosto che una performance grammaticalmente corretta ma piena di pause ed esitazioni. Annoveriamo quindi : yeah, well, basically, I was wondering if (yeah, bene, mi chiedevo se), quando prendiamo il turno di conversazione;  You know what I mean, the fact is, the point is, I see what you mean but (sai cosa intendo, il fatto è, il punto è, capisco cosa intendi ma) quando motiviamo le nostre idee;  just, actually, I mean (appunto, in effetti, voglio dire che..) usati per intercalare le nostre battute.

Detto ciò, esorcizziamo il mostro della grammatica e tuffiamoci nel mare delle parole!

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