Tutto cominciò quando, nel 1854 un tecnico telegrafista, all’anagrafe Charles Bourseul, si chiese se la parola potesse essere trasmessa per mezzo dell’elettricità.

Poi arrivarono, in ordine di tempo, Antonio Meucci, Alexander Graham Bell e Mark Zuckemberg. Il primo, italiano che a causa di varie vicissitudini, si vide rubare, sotto il naso, la paternità dell’invenzione del telefono da Bell, che poi ci costruì un impero. Il terzo, padrone dell’universo social, che per effetto della storia che si ripete, ha passato anni e foraggiato con milioni di dollari avvocati, per difendere dai fratelli Winklevoss la paternità di Facebook, il suo primo Social Network.

Ma torniamo al secolo scorso. Per scambiare due parole al telefono era necessario un centralino di smistamento che metteva in connessione le diverse utenze. All’epoca, i primi telefoni avevano un microfono ed un altoparlante. Solo negli anni Sessanta le connessioni telefoniche diventarono dirette e arrivarono le prime cornette con le tastiere numeriche rotanti. Alcune erano così pesanti che dopo averle girate, il dito rimaneva dolorante per diversi minuti. Il peggio era se sbagliavi a comporre il numero e dovevi iniziare da capo a girare la rotella.

Oggi invece l’incubo si chiama #whatsappdown, e ogni volta che accade è come se il pianeta terra smettesse di girare e rimanesse immobile, in attesa che quella rotellina che ci segnala il tentativo di riconnessione, lasci spazio all’orario del last seen. Sempre di rotella si tratta.

Il verdetto è facile: siamo scemi a livelli altissimi. Il motivo sta anche nella eccessiva velocità a cui siamo costretti a vivere. Non abbiamo neanche il tempo di scriverle le parole: Ti voglio bene? Cuore. Ti amo? Cuore, Ti stimo? Cuore. Ti vorrei mandare a quel paese ma non posso: Cuore pulsante.

E poi la tranvata comunicativa arriva per tutti, nei modi più disparati.

Metti che sei una trentenne in carriera, una di quelle che al supermercato ci va alle 9 di sera, sfatta da 10 ore di ufficio e riunioni, con una mano allo smartphone ed una al carrello della spesa in attesa dell’etto di prosciutto, con un occhio ai numeretti smalticoda e con l’altro allo smartphone. Leggi l’ultima notifica e vedi il nome di quel tizio lì che ti piace un casino e che ti ha appena scritto: “Poi ti amo”. Inizi a fantasticare, la tua mente corre come un frecciarossa e siete già all’altare. Nel frattempo il salumiere ha chiamato il tuo numero, chiedi il prosciutto con gli occhi che si sono trasformati in due cuori pulsanti ed il sorriso dello stregatto di Alice nel paese delle meraviglie. Sei già alle nozze d’argento quando recandoti verso le casse, riprendi lo smartphone, guardi nuovamente la notifica per rituffarti nel brodo di giuggiole e ti accorgi che il tizio aveva scritto: “Poi ti chiamo”.

Parte la soundtrack del tuo film personale che si è consumato così velocemente che sarebbe meglio definirlo cortometraggio: a cantare è la voce straziante e inconsolabile di Mina “Ma non so spiegarti che il nostro amore appena nato è già finito”.

Era meglio il telefono senza fili, quello con cui ci divertivamo a giocare da bambini parlando dentro una latta collegata mediante un filo ad un’altra latta  Il gioco si concludeva sempre con grasse risate perché le parole che correvano lungo il filo di collegamento, portavano all’interlocutore di turno parole senza senso, con un effetto metasemantico degno del Lonfo di Fosco Maraini,  magistralmente interpretato da Gigi Proietti, quello che “quasi quasi in segno di sberdazzi gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto t’alloppa, ti sbernecchia e tu l’accazzi”.

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