Il mondo dei viaggi non è fatto solo di turisti e avventurieri pronti a scoprire nuovi luoghi inesplorati o a godersi il meritato riposo dopo un faticoso anno di studi o di lavoro. Gran parte del fatturato del settore “viaggi” proviene dalla clientela business, in poche parole, da chi viaggia per lavoro. Li avrete visti parecchie volte in aeroporto: uomini e donne intenti a parlare al cellulare o immersi di fronte allo schermo di un tablet in attesa del proprio volo; frequentano spesso le stesse città e di ognuna ne amano o ne detestano qualcosa; non appartengono a nessun luogo, ma in ogni luogo trovano qualcosa che gli appartenga.
Qualcuno li chiama “cittadini del mondo”, altri “No Roots”: riescono a contenere la propria vita in un bagaglio; sono abituati ad avere poche abitudini o ad allontanarsene gradualmente rimpiazzandole con altre da perpetuare nel presente e sostituire nel futuro; dormono spesso in alberghi di media categoria, dove le camere standard si somigliano sempre ovunque al mondo, e capita loro spesso di svegliarsi al mattino non sapendo dove siano. Madrid, Barcellona, Napoli, Parigi? In quelle occasioni al risveglio, per qualche secondo, li assale un senso d’incertezza, di mutabilità e provvisorietà.
Beneficiano e patiscono la costante condizione di caducità: apprezzano il calore dell’ultima giornata di sole e il gusto dell’ultimo cioccolatino, ma soffrono di una costante sensazione di precarietà e, per non essere vittime della sensazione di finito, percorrono spesso un circolo, un iter di ricordi e proiezioni future in continua evoluzione.
Questa sindrome, qui descritta nella condizione e percezione del viaggiatore seriale dell’era globale, ha caratterizzato nei secoli il percorso di chi ha vissuto, indipendentemente da una frenetica motilità, la propria vita come fosse un viaggio; un viaggio fisico o astratto e spirituale che ha spesso caratterizzato le opere di molti artisti che hanno reso “movimento” ed evoluzione tratto distintivo delle proprie opere.
Fra le opere pittoriche il “Ciclo delle Ninfee” di Monet, esposto presso il museo dell’Orangerie di Parigi, rappresenta la caducità e la rivalsa sulla stessa; la sensazione di temporaneità si trasforma in arte raccontando il senso del finito che viene vinto dalla ripetizione attraverso la metafora dell’eterno ritorno. Fra specchi d’acqua e colori tenui e sfocati di fiori eterei color pastello, Monet imprime su tela, come fosse un diario di viaggio, una narrazione di vita fatta di intervalli, ricordi e ritorni dove le Ninfee rappresentano la conclusione di un viaggio, lungo quanto la vita stessa dell’artista.
Entrare all’Orangerie è come entrare in uno spazio senza tempo, in una giornata di primavera, in una perenne mobilità in cui non c’è voglia di fermare il tempo ma solo voglia di cogliere la transitorietà delle cose.
Come diceva Monet “Dobbiamo immergerci nelle cose per poterle vedere” ma, come ci ha trasmesso lui stesso: dobbiamo saperci allontanare da un luogo prima di poter avere il privilegio di assuefarci e prima di non avere più voglia di tornarci.

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Femme heureuse à l’Orangerie
Claude Monet, Ninfee, 1900
Claude Monet, Lo stagno delle ninfee, 1899

Foto di Paola Arcidiacono

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