Sogno o son desto? Ecco cosa poteva chiedersi un uomo dei primi del Novecento a una mostra surrealista. Una pittura virtuosa, realistica, destabilizzante per i soggetti, ma anche per gli oggetti, scelti e rappresentati con la “logica di un sogno”. Un sogno ad occhi aperti o una visione onirica tra le braccia di Morfeo tutto era concesso per i pittori surrealisti. Le regole del racconto lineare e dell’ordine visivo della rappresentazione non erano necessarie, tutto era un modo per rappresentare l’intangibile mondo delle loro visioni. Suggestioni che arrivavano dal mondo della psicanalisi e dal nuovo fervore delle avanguardie artistiche. Freud affermava che i sogni sono prodotti dalla psiche e mentre si dorme le sensazioni, i suoni e le immagini si susseguono senza dover necessariamente seguire un filo logico. Questo accade perché la mente è libera, essendo l’uomo non più vigile, e l’inconscio può esprimersi attraverso immagini a carattere simbolico.  Per i surrealisti, suggestionati da queste intuizioni, nelle tele si potevano quindi rappresentare scene convulse, destabilizzanti e affollate di significati difficili da decifrare. L’occhio mongolfiera di Odilon Redon, che guardando verso l’alto solleva una testa mozzata, si mostra allo spettatore con grande realismo ma si trova in una dimensione dove la logica del visibile é al servizio dell’invisibile. L’artista è un osservatore attento della realtà, che rappresenta con dovizia di particolari, ma a un certo punto sente necessario rappresentare la sua “poetica del paradosso” in cui presenta scenari inverosimili ma ambivalenti. Terreno fertile per molti dei surrealisti. Questi pittori si avventurano nell’analisi del pensiero inconscio per decifrarne i simboli e i significati nascosti. Liberando la mente dalle sovrastrutture razionali, gli elementi del pensiero prendono forma e sono espressi nelle opere. Lo spirito creativo così è libero e le immagini che si associano e si legano tra loro, in modo apparentemente incongruente, sono dense di significato. Due artisti utilizzano questo linguaggio in modo molto diverso. Salvador Dalì vede nei suoi sogni, tra le tante “bizzarie”, orologi molli come Camembert filante, strutture fantastiche in equilibrio precario, strane forme antropomorfe. Il suo è un metodo paranoico-critico in cui analizza i suoi deliri e le sue paure, sublimandole nei suoi dipinti. Le formiche sono animali ricorrenti nelle sue opere per superare lo sgomento di un’immagine vista da bambino: un pipistrello che letteralmente veniva divorato dai piccoli animali. René Magritte invece non sogna, ma le sue sono rappresentazioni, ordinate e accademiche, in stato di veglia. Fu soprannominato “le saboteur tranquille” per la sua abilità a insinuare dubbi sulla realtà e sul significato razionale che diamo agli oggetti della nostra vita quotidiana. Il tradimento delle immagini, del 1928, è una tela che rappresenta una pipa ma sotto l’oggetto reca una scritta: questa non è una pipa. Infatti, dice Magritte: “Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa”. Entrambi destabilizzano, visivamente e concettualmente, confondendo lo spettatore ma la bellezza virtuosa dei dettagli e l’alto valore evocativo delle loro opere contengono un codice che comunica con la nostra parte inconscia oltre il visibile.

Odilon Redon, L’occhio, come un pallone bizzarro, si dirige verso l’infinito, 1882
René Magritte, Il terapeuta, 1962
Salvador Dalí, La persistenza della memoria, 1931

Foto copertina di Valentina Giuffrida

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