I raggi estivi bagnano la distesa di lavanda davanti a noi. Il tramonto è ancora lontano e le api sembrano impazzite mentre volano alla ricerca del fiore più succulento. Il profumo quasi stordisce in questo mare viola che rasserena l’anima. L’esplosione più intensa però è laggiù dove il sole sembra essersi riprodotto in un’infinità di piccoli cloni che ruotano il capo al suo passaggio, piccoli sudditi devoti al loro signore. Ogni scorcio potrebbe diventare un quadro con i suoi contrasti di azzurro, viola, giallo e il bianco delle nuvole che, inseguite dal vento, si sfaldano e ricompongono in disegni fantasiosi. Facile comprendere il perché l’artista ne rimase folgorato. Socchiudendo gli occhi mi sembra di vederlo, laggiù, immerso nella vegetazione fino alle ginocchia, lontano con la mente e concentrato solo sulla sua ossessione: il giallo, quel giallo che ad ogni pennellata graffia e poi accarezza la tela, quel giallo denso, pastoso che si fa petalo, corolla, luce di sole o scintillio di stelle. I pennelli catturano la luce e ne fanno materia tangibile da divorare con gli occhi. Divorare, ecco, forse è proprio il termine giusto se pensiamo che si attribuisce all’artista l’abitudine ossessiva di mangiare letteralmente la pasta che usciva dai tubetti, cibandosi di quel giallo brillante. Realtà? Chi può dirlo. “Lì dove genialità e saggezza si allontanano dalla realtà si apre alla follia” ricordo questa frase mentre con la fantasia ripercorro un’estate di fine Ottocento, quando Vincent Van Gogh fece di Arles e della Provenza casa propria, per nutrirsi di quell’energia. Platone sosteneva che le più nobili forme dell’attività umana, allontanandosi dalle occupazioni umane più comuni, altro non sono che il frutto dell’essere posseduti da una divinità. Ciò che è dettato dal divino ha termini incomprensibili ai più. Non è un caso che gli antichi greci vestissero di giallo i folli per renderli riconoscibili. Giallo, il colore che va oltre la luce, un colore che va oltre esattamente come alcune menti. In quegli anni ad Arles il giallo dominò l’universo dell’artista, dalla propria stanza ai quadri. Le ossessioni, quelle che il pittore portò con sé per tutta la vita, fino a rendersi sgradevole, allontanando dalla propria esistenza anche gli amici, uno tra tutti, forse il più importante, Paul Gauguin. L’amico aveva ciò che mancava a Vincent, quella concretezza, quel contatto con la vita reale, un lavoro, una famiglia. Le due menti non avrebbero mai potuto convivere a lungo. Non ho mai amato particolarmente i famosi “girasoli”, forse perché intrisi di rabbia, dolore, potenza distruttiva. Ogni fiore sembra accartocciarsi su sé stesso, come il pittore si lasciava raggomitolare nella propria follia, alcuni petali sembrano muoversi come artigli il cui colore devia dal giallo ad un’ocra scura e triste. Ora il sole comincia a scendere sulla distesa viola e gialla. Il vento accarezza le grandi corolle che lentamente si piegano in attesa della notte, una di quelle notti, chissà, come quella che a fine Ottocento, con le sue stelle luminose, provò a dare conforto e sollievo all’uomo, all’artista e al suo cuore senza pace.

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