Cari lettori, questa volta ho scelto per voi un tema a me molto caro: la genitorialità. Essendo madre di due bambini di sette e quattro anni mi interrogo spesso sul mio ruolo di madre, ritrovando quotidianamente, anche nel mio lavoro di psicologa, quel senso di cura, di protezione e di attenzione verso i miei piccoli e grandi pazienti. Ma cosa significa genitorialità? Partendo dall’etimologia della parola “genitore” scopriamo che essa deriva dal latino “genitor”, ovvero colui che genera, che dà la vita. Cosa si può intendere per “generare la vita”? Riduttivo, per certi versi, sarebbe pensare all’essere genitore come a colui che ha procreato biologicamente la propria creatura; si tratta, piuttosto, di un processo dinamico attraverso il quale si impara a diventare genitori capaci di prendersi cura e di rispondere in modo sufficientemente adeguato ai bisogni dei figli e a quelli propri. La crescita umana, infatti, è fatta di stadi, come sosteneva Pamela Levin, che si ripetono continuamente nel corso della vita; per cui le diverse fasi evolutive dei figli riattivano bisogni ed inquietudini che fanno parte della propria storia evolutiva. L’evento reale della nascita di un figlio, attiva un personale ed intimo spazio mentale e relazionale rimettendo in circolo tutta una serie di pensieri, fantasie, atteggiamenti legati alla propria esperienza di figli, che indubbiamente ha generato non poche crisi esistenziali, ambivalenze e cambiamenti. Un illustre psicologo e psicoanalista, Erik Erikson definì la generatività come “l’aspetto evolutivo più importante per lo sviluppo psicosociale e psicosessuale”, uno stadio di sviluppo fondante la personalità di ogni soggetto che è chiamato lungo l’arco della sua vita ad “occuparsi di” qualcun altro, oltre che di se stesso. La generatività, quindi, non presuppone la nascita di un figlio reale, piuttosto è uno spazio fatto di  relazioni,  dentro il quale convergono “la mia storia affettiva, il mio mondo degli affetti, i miei legami di attaccamento, il mio mondo fantasmatico, il mio narcisismo, il senso che ha per me la mia esistenza, il mio sentirmi parte di una storia, la mia differenziazione sessuale, la mia capacità di vivere relazioni pluri-dinamiche (e di non essere chiuso in una relazione duale), il mio rapporto con le regole e il sociale, la mia capacità di contenere e regolare i miei stati emotivi, la mia capacità di cambiare e di essere cambiato, il mio sentirmi unico e irripetibile, autonomo ed indipendente e nello stesso tempo bisognoso di “essere pensato da qualcuno”.(Visentini 2006). Tutto questo si intreccia con l’esistere dell’altro, il quale è, appunto, l’Altro, per citare Camilleri, diverso da noi, verso cui però miriamo per ri-congiungerci con quelle parti nostre che sono essenziali per la nostra crescita psicoaffettiva. Pertanto, spinti da un libero e naturale bisogno di amare e di sentirsi amati arriveremo tutti a “generare la vita”, intrecciandoci oltremodo nei meandri di essa: “Ognuno di noi convive tutta la vita con un doppio desiderio: rispetto alla famiglia il doppio desiderio di appartenere e di individuarsi; rispetto al proprio sé, di essere autonomi e maturi e di non essere soli”. Carl A. Whitaker (1989)