Ci sono viaggi che sogni, viaggi che realizzi, viaggi che ti riempiono il cuore di ricordi con i quali scaldare l’anima per tutta la vita; poi ci sono viaggi che non avresti mai immaginato di dover fare, viaggi che sembrano senza ritorno e dai quali, se si torna, non si sarà mai più gli stessi. Il cuore ne uscirà vinto, provato, fermo, immobile in uno stato di incredulità per aver vissuto qualcosa che nessun essere umano degno di questo nome dovrebbe mai concepire. 1943, dicembre, la neve con il suo silenzio ovattato copre tutto, difende tutto, ma non difende dalla follia della guerra, non copre le voci di chi tradisce un altro essere umano, la neve questa volta è solo gelo. – Spia per nuocere, per sadismo sportivo, come abbatte la selvaggina chi va a caccia – questo racconta un uomo mentre guarda la neve, una neve che urla ancora un silenzio di morte, una morte da cui è fuggito, un viaggio all’inferno da cui è tornato. Primo Levi non guarderà mai più la neve con gli stessi occhi. In quel dicembre del 1943 un treno smetteva di essere simbolo di unione tra luoghi, di ricongiungimento con i propri cari, per farsi mero contenitore di corpi vivi senza vita destinati all’inferno di Auschwitz. Guardo la neve, chiudo gli occhi, la voce di quell’uomo colto, distinto, colpevole soltanto di appartenere alla “razza sbagliata” per la follia della storia, mi arriva chiara, provata ma asciutta. Da certi viaggi non si torna mai, quello che torna, se torna, è un altro te. Occhi forti e tristi dietro quegli occhiali; osservo con i suoi occhi un binario che entra fin dentro la bocca dell’inferno, ascolto con le sue orecchie ordini urlati, abbaiare di cani, vedo divise grigie come i volti dei passeggeri di quel treno e poi, con tutto il suo essere, sento il dolore, lo smarrimento, il terrore e l’incredulità. “Una terribile tempesta” questo è il significato della parola ebraica “shoah” perché, come una tempesta, il male si è abbattuto sul mondo travolgendo vite innocenti. Due anni dopo, quel signore distinto mutato nel profondo della sua anima, attraversa le vie della sua Torino. La città è ancora lì, intatta, la sua casa è ancora lì, illesa. Guardo ancora attraverso i suoi occhi il portone del palazzo, con le sue gambe stanche salgo le scale, con le sue braccia provate stringo familiari increduli. “Quel lungo viaggio verso casa ho voluto raccontarlo ne La tregua perché il mondo doveva sapere, non potevo fingere di dimenticare”. Le pagine di Primo Levi sono la voce di tutte quelle vite spezzate, la memoria che gli si deve. Lascio lo scrittore all’affetto dei suoi cari, mi sento come se stessi spiando da dietro il buco della serratura un momento intimo che non sono in diritto di profanare. Bentornato a casa signor Levi, noi possiamo solo tornare “alle nostre tiepide case”, per citare un passo della sua poesia, con il dovere morale di non dimenticare mai!