I raggi del sole hanno iniziato a farsi più bassi e meno violenti, ma la morsa del caldo non accenna a liberare la città. Come un lenzuolo pallido e umido, il cielo sembra in procinto di avvolgere tutto togliendoci il respiro. Siamo nervosi, intolleranti e stanchi di udire, come colonna sonora delle notti cittadine, il ronzio dei condizionatori che ricordano enormi zanzare. Eppure, nella melma bianca che avvolge la città, c’è un luogo senza tempo dove anche l’universo sembra essersi ritagliato un posto a parte. Mi trovo a due passi dalla tangenziale, dove il traffico scorre veloce, qui vicino c’è l’aeroporto eppure, come attraverso lo specchio di Alice, varcando il cancello del Cimitero di guerra del Commonwealth di Catania sono altrove. Non si ode alcun rumore di quel mondo che ho lasciato, tutto sembra essersi spento. Un aereo passa sopra di me in un irreale silenzio rotto soltanto dal canto di qualche uccellino. Anche il caldo si è fatto meno opprimente. La distesa di erba del prato curatissimo regala frescura e pace mentre, in lontananza, l’Etna fuma piano. Qui tutto si è fermato a quell’estate del 1943. Uniche testimoni dell’accaduto sono le piccole lapidi candide, in file ordinate, un’armonia in contrapposizione all’orrore che rappresentano. Su ognuna c’è un nome, la data e, accanto ad alcune, anche una foto. Sento solo il lieve rumore dei miei passi mentre mi avvicino a una di queste, mi dirigo istintivamente verso quella pietra bianca, verso quel nome, come se sapessi esattamente di chi si tratti. Non era un parente, non ho idea di quale sia il volto che si cela dietro una stella di David incisa insieme a una data e un nome: David Bronsky. Il prato accoglie un numero enorme di memorie di soldati, le loro vite spezzate, voci, risate, grida e pianti, sono tutte qui, tutte con lo stesso valore e lo stesso vuoto lasciato nei cuori delle loro famiglie, eppure quest’anima sembra essere così familiare. «Caporale David Bronsky, secondo battaglione, regimento Devonshire!» esclama una voce dal tono sarcastico. Tutto intorno sembra sparire avvolto in una strana nebbia. Ci siamo solo io, una piccola lapide candida e l’ombra leggera del Caporale Bronsky che mi fa il saluto militare. «La maggior parte di noi nemmeno sapeva dove fosse la Sicilia» dice in tono amaro «chi lo doveva dire a me, un ventiquattrenne di Slough nel Buckinghamshire, che sarei venuto a morirci? Quando siamo arrivati con la brigata Malta ci sembrava di essere sbarcati su un altro pianeta. Ci hanno dato un opuscolo con qualche notizia sui luoghi e la gente del posto, come si fa con i turisti» l’ultima parola la pronuncia ridendo, una risata che però non ha nulla di allegro. Sembra alto, in realtà è solo un’ombra di cui non distinguo il volto. La voce continua a raccontare, questa volta il tono è basso, a tratti confuso. «L’avanzata è stata difficile, ricordo i ragazzi intorno a me soffrire per il caldo e la sete, prima ancora che per le ferite, quelle sarebbero arrivate dopo. Faceva talmente caldo. Trascinavamo quegli zaini, le armi e noi stessi, come zombie, però il nemico sembrava retrocedere, eravamo certi di farcela. Sarebbe stata dura ma ce l’avremmo fatta. Me lo sentivo.» L’erba sotto i miei sandali è fresca, una sensazione piacevole che mi avvolge come la voce del Caporale Bronsky che continua il suo racconto. «Abbiamo preso Messina il 17 agosto, eravamo stremati e quel calore diverso è arrivato all’improvviso. Il sapore del sangue, le voci lontane, qualcuno mi ha soccorso. Poi solo buio. Non lo so quanto è durata. Dopo qualche giorno le voci si sono fatte ancora più lontane fino a scomparire del tutto, anche il dolore non c’era più, non c’era più la guerra, non c’era più il peso dello zaino sulle spalle, mi è sembrato tutto così leggero. Non c’ero più nemmeno io, me ne sono andato come se ne stava andando il mese di agosto. Grazie per esserti accorta di me.» Si dissolve tutto, l’ombra del Caporale Bronsky, la nebbia che ha avvolto questo luogo immobile nel tempo. Il canto di due uccellini che si rincorrono tra i rami mi riporta al presente, al 23 agosto, d’istinto guardo la data sulla lapide: 23 agosto 1943. Ho conosciuto il Caporale Bronsky nell’anniversario della sua morte, esattamente ottant’anni dopo. Coincidenze? Forse. Sono tornata qualche tempo fa sulla tomba di David, qualcuno ha messo la sua fotografia. Adesso il Caporale David Bronsky non è solo una lapide bianca tra tante in un prato verde, ma il volto di un giovane uomo che avrà per sempre ventiquattro anni.
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Mi chiamo Barbara, diplomata in pittura all’Accademia di Belle Arti di Perugia, sono da sempre appassionata di Arte e Antiquariato. Amo associare l’idea di viaggio a quella di immersione nell’arte, ritenendo il mondo un prezioso scrigno colmo di tesori. La scrittura di racconti e la compagnia dei libri sono la mia vita ed è a loro che mi dedico con passione perché, citando Umberto Eco, “chi legge avrà vissuto 5000 anni, c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito…perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.