L’ approccio ad una cultura diversa ci mette sempre a contatto con nuove realtà, nuovi mondi, nuovi orizzonti. Oggi la prospettiva promossa è quella dell’approccio interculturale, secondo il quale nessuna cultura è mai migliore, superiore o più giusta rispetto ad un’altra, ma è semplicemente “diversa” e diversità può e deve sempre essere una fonte di ricchezza e di arricchimento reciproco. Il cammino verso quest’ottica è stato però lungo e faticoso attraverso la storia e la cultura inglese ne è stato proprio un esempio. Grazie allo sviluppo dell’industria tra il Settecento e l’Ottocento, l’Inghilterra acquisì un potere economico politico e sociale che la rese protagonista indiscussa in Europa e nel mondo. Lo specchio di tale forza era il grande Impero britannico che conobbe il suo apice proprio durante l’epoca Vittoriana, nel XIX secolo. La colonizzazione iniziata ai tempi della grande regina Elisabetta I aveva portato ad allargare sempre più i confini dell’impero, estendendosi anche fino ad Oriente, in seguito alla grossa perdita delle colonie americane in Occidente. Per secoli l’Imperialismo fu esaltato attraverso il mito del “white man’s burden” (il fardello dell’uomo bianco), ovvero il dovere morale dei bianchi di portare la civilizzazione nei paesi sottosviluppati. Robinson Crusoe, primo romanzo nella letteratura inglese, scritto da D. Defoe, ne è proprio la prova, descrivendo ed esaltando l’azione civilizzatrice del naufrago Robinson che insegna la lingua, la religione e le tecniche di lavorazione della terra al selvaggio Friday, evidente metafora del rapporto tra la ricca e forte Inghilterra e le sue colonie povere e sottosviluppate.

Dobbiamo aspettare la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento per assistere alle prime voci stonate del coro. Accanto alla produzione letteraria pro imperialista di R. Kipling, emerge infatti quella anti imperialista di J. Conrad che nel suo Heart of Darkness (Cuore di tenebra) con toni cupi ma lucidi ci descrive il vero volto dell’ imperialismo: un processo di sfruttamento delle colonie e di appiattimento della loro dimensione culturale, celato dietro un ostentato buonismo. Ancora sulla stessa linea d’onda si affermerà il grande G. Orwell che sperimentò personalmente la brutalità dell’imperialismo. Lavorando lui stesso presso la polizia imperiale in Birmania, svilupperà un vero e proprio disgusto per “the dirty work of Empire” (lo sporco lavoro dell’Impero) che lo porterà a dimettersi e ad aprire la sua mente e il suo cuore verso i più deboli, gli oppressi, i poveri, portandosi dietro un senso di colpa per essere stato tra gli oppressori (anche se solo per cinque anni), che lo accompagnerà per tutta la vita. Oggi non solo abbiamo teorizzato l’approccio interculturale, ma lo abbiamo addirittura superato, ritenendolo ormai scontato e superfluo. Ma siamo davvero sicuri di interagire con le culture diverse dalle nostre in modo costruttivo e arricchente? E non mi riferisco solo alla tendenza di imporre la propria cultura su quella altrui, ma al contrario di assorbire eccessivamente la cultura altrui a scapito della propria identità culturale. Spunti per una riflessione …

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